mercoledì 11 novembre 2009

Prefazione


Prefazione /Postfazione
(Dal cane alla fontana… quarant’anni in Compagnia)
Di: Kuerkulis)

Tra Dicembre 2005 e Gennaio 2006 persi l’occasione di avere i miei 5 minuti di notorietà di Wharoliana memoria. Via Stalngrado 45 e dintorni, era infatti piena di giornalisti che si infilavano anche in mensa per carpire dichiarazioni free-flow sul caso Consorte Sacchetti e compagnia cantante e ad un paio che mi chiesero commenti sulle loro dimissioni risposi in maniera brusca e scortese che non avevo niente da dire.
Certo, ero sicuramente influenzato da un mio pregiudizio (non di allora e ancora non rimosso), verso una informazione che non informa ma porta avanti tesi precostituite. Molto probabilmente, il virus del senso di appartenenza dopo un ventennio di incubazione veniva fuori e mi faceva fare un emotivo quadrato intorno ad un fortino sotto attacco di un interesse che non era il mio. Sicuramente ero confuso e smarrito dalla ridda di voci che provenivano dai media e che si intrecciavano con quelle di radio scarpa rendendo pressoché impossibile cercare di leggere una situazione già di per sé complessa.
In realtà qualcosa da dire ce l’avevo. Me ne accorsi una sera che postai un paio di commenti sulla vicenda nel sito di Beppe Grillo. Ricevetti risposte in linea con “dagli all’ Assicuratore”, risposi per le rime, in breve fui espulso per intemperanze verbali con tanto di cartellino (ironia della sorte) rosso.
Incazzatissimo con Grillo, gli utenti del forum e la stupidità di una omologazione della informazione anche pseudo alternativa, invece di spegnere il PC mi misi a scrivere la storia dell’ Unipol.
In definitiva quella prima puntata, fu scritta per spirito di sopravvivenza. Quello stesso spirito di sopravvivenza che ti spinge a voler dire la tua, quello stesso spirito che ti spinge a scrivere una storia che hai voglia di leggere.
Raccontare il ieri non è una operazione nostalgica. La nostalgia per il buon tempo andato si ha solamente quando ci si rende conto di avere qualche kilo in più e del testosterone in meno. Questa è una operazione di memoria storica che, se permettete, è un’altra cosa. Non si è mai poveri se si ha la ricchezza di una memoria perché in tempo di carestia fai con quello che hai e quello che hai è anche quello che sei.
E in tempi in cui la storia della Compagnia prende una mezza paginetta del Bilancio Sociale… forse vale la pena di passare del tempo a ricordare che è storia non solo di numeri ma anche di quotidiani e di uomini e di donne.
Sono stato ospitato nelle pagine di un giornale che, con diverse qualità, è riuscito a sopravvivere a parecchi Mega - Dirigenti e che è diventato il vero organo di comunicazione del mondo Unipol, con i suoi limiti ed i suoi eccessi che sono poi quelli del nostro quotidiano.
Un giornale che è stato fotografia del mondo di Via Stalingrado, grazie alla libertà dei vincoli istituzionali ma soprattutto dimostrando che per comunicare i pixel non servono ma bastano orecchie sensibili agli umori.
In questo giornale, la mia storia ha avuto un valido compare in quel Tonino che propose, a suo tempo, il salto di qualità e che ho ritrovato con la medesima mia esigenza di capire e comunicare.Due lavori paralleli partiti da diversi punti di vista. Due stili diversi ma con la medesima struttura: io che mi ispiravo alla telenovela, lui, che da giovane ricordo con bellissimi papillon, ordinava il presente con il feuilleton.
E ben vengano queste forme tanto vituperate ma tanto popolari se hanno dato 5 minuti di riflessione, di astrazione da un lavoro alienante, di una consapevolezza speciale forza che il ricordo di un collega o di una situazione ci ha infuso. 5 minuti di discussione, di aver voglia di dire la propria opinione, di raccontare una storia.
Hanno più valore di 5 minuti di notorietà.

Prima puntata: L' idea


La nostra storia potrebbe partire dalla fine dell’ 800, in una Italia appena nata , quando si costituisce la Federazione Nazionale delle cooperative, primo organismo ufficiale di questa istituzione. O, volendo, potrebbe anche partire da qualche secolo prima, nel ‘600, periodo in cui , in Olanda e Gran Bretagna, si crearono le prime vere e proprie compagnie di assicurazione, sistemizzando e modernizzando un modello fiorentino, genovese, già ma non ancora italiano di pratica commerciale. Tra i tanti punti di fuga per questa storia, scegliamo invece i nostri più consoni anni ’60, uno dei tanti periodi in cui il mondo cambiò. In Italia, ad esempio, si passò la fase di dopo-dopo guerra. Una fase critica per una democrazia uscita fragilissima da un ventennio di dittatura. Una fase di disillusione soprattutto da parte di chi, ha messo in gioco la sua “meglio gioventù” per un ideale di libertà. Disillusione che nasce da un rivedere vecchie facce di potere al posto di prima; persone che hanno sacrificato i propri vent’anni costretti a cambiare nazione; nel constatare, senza ombra di dubbio, che tutto è cambiato e tutto è rimasto uguale, nel rispetto della più classica concezione gattopardiana. Al di là della retorica la storia ci racconta di ex-partigiani ieri eroi e oggi fuggiaschi in Cecoslovacchia. Ci racconta di epurazioni nelle caserme e nei luoghi di gestione del potere , di simpatizzanti comunisti. Ci racconta di licenziamenti nelle fabbriche degli operai sindacalizzati. Ci racconta tutto questo, al lordo di altri approfondimenti, ma ci racconta anche, ad esempio, che tanti di questi licenziati dalle fabbriche si misero in proprio dando vita a un nuovo soggetto sociale ed economico che era quello del “padrone rosso” in contraddizione con la capacità di usare le mani e di stare sul mercato, e una impostazione ideologica per cui il denaro era “sterco del diavolo”. La nostra storia vuole partire da qui. Da Don Camillo e Peppone che Guareschi creò sui personaggi del Cardinale Lercaro e di Giuseppe Dozza, commesso di tessuti salvato da Togliatti dalle epurazione staliniste e capace di dialogare con gli avversari per trovare e attuare un progetto comune. Ma in questa storia non si parla di eroi. Chi vuole può leggersi le biografie di Giuseppe Dozza, Lercaro, Don Sturzo e Terracini e ci troverà dentro solo uomini, che oggi definiamo di altri tempi solo perchè avevano la qualità di vedere un poco più al di là dei loro nas iideologici. Uomini come ce ne sono e ce ne erano tanti. Anonimi che contribuiscono a cambiare lo stato delle cose. E tra queste cose c’è l’istituto della cooperazione. Strana storia quella della cooperazione, nata come esperienza di necessaria sopravvivenza tra povera gente, in un mondo anni luce lontano da noi. Strana storia ha questa istituzione di reietti usata come armonizzatore sociale (oggi c’è chi lo definisce collateralismo…) anche da Giolitti e persino dal Mussolini durante l’incubo di Salò.

Strana storia di un istituto legittimato dall’art. 46 della Costituzione, e da una legge che porta il nome di un cattolico, Basevi, per poi, dopo pochi anni dalla sua emanazione, essere ferocemente attaccata dall’altro cattolico Scelba. Una strana storia che proprio agli inizi degli anni ’60 ha la capacità di reinventarsi e di porre una domanda oggi più che mai attuale: è possibile fare un mercato senza rinunciare alla propria identità ?
Una simile domanda se la pose, ad esempio, Sergio Getici. Nato in una Via del Pratello non ancora Osteria-Park per i fuori sede ma ancora strada malfamata dove, calato il sole, solo puttane, ladri, pochi di buono e persone nate in “dal Pratell” potevano circolare senza problemi, operaio curioso e ambizioso che si trovò, quasi casualmente, a seguire le questioni assicurative di Federcoop e che ad un certo punto si chiese: ma perché dobbiamo dare tutti questi soldi a persone così lontane da noi mentre potremo utilizzarli per noi stessi per far crescere il movimento ? La domanda aveva più di una risposta. All’interno del movimento cooperativo esistevano ancora forti resistenze ideologiche circa l’uso del capitale e della finanza in genere. E chi le aveva superate, si trovava di fronte ad altri muri invalicabili. Le assicurazioni, ad esempio, erano cosa ben diversa da ciò che conosciamo. Nata anch’essa con spirito solidaristico, l’istituto assicurativo non poteva che essere agli antipodi di quello cooperativo per le dinamiche che lo avevano sviluppato. Già dal ‘600 con la nascita delle joint-stock (progenitrici delle attuali S.P.A.) la partecipazione economica alle Compagnie assicurative portava denaro. Tanto e subito. Il mondo assicurativo divenne così un mondo a parte, scarsamente normato e basato non sulla conoscenza del contratto ma sulla fiducia e serietà che ispirava una compagnia. Nell’ Italia del dopoguerra, dove l’assicurazione era gestita prevalentemente da compagnie che erano Italiane solo perché Trento e Trieste lo erano divenute dopo la Grande Guerra, che aveva un sistema bancario diffuso (in buona parte gestito dalle cooperative di ispirazione cattolica), che aveva una classe dirigente facilmente influenzabile, in questa Italia, l’assicurazione erano un pugno di potenti compagnie che non solo facevano mercato, ma anche le sue regole. Ecco quindi che l’approcciarsi alla materia era cosa alquanto ostica e anche chi aveva superato un atavico pregiudizio ideologico si sentiva comunque titubante e diffidente verso un mondo sconosciuto, monolitico ed elitario. L’obiezione era quindi: come può un cooperatore che, come unico capitale ha la solidarietà, competere con chi il mercato lo gestisce e controlla da decenni ? E poi sarebbe poi stata permessa questa competizione ? Infatti quando si dice che le grosse compagnie facevano mercato si intende anche che controllavano la concorrenza premendo sugli organi istituzionali perché le autorizzazioni ad esercitare l’assicurazione fossero centellinate e indirizzate secondo criteri clientelari. Logica che faceva sì che la cooperazione trovasse un fuoco di sbarramento di fronte a sé. Quest’ ultimo ostacolo, il più grosso, rappresentava anche una sorta di scusa da parte di quelle componenti della Lega delle Cooperative che non volevano impelagarsi in questa avventura.
Ma nel 1962 accade qualcosa, capita la classica “bazza”. Infatti pochi anni prima, la famiglia Boglione, proprietaria della celebre Lancia, ha seguito l’ esempio della Fiat che ha creato la SAI allo scopo di fornire un servizio suppletivo ai propri clienti. E’ infatti nata Unipol (acronimo di unica polizza) , ma i problemi di liquidità dei Boglione li convincono ad immetterla sul mercato ancor prima che avesse le autorizzazioni necessarie per operare. L’occasione è ghiotta e la caparbietà dei cooperatori bolognesi fa il resto convincendo infine i vertici della Lega delle cooperative della bontà dell’affare e duecentocinquanta cooperative acquistano il 95% delle azioni dei Boglione che, rimanendo con un 5%, garantisce il buon fine dell’iter burocratico per l’autorizzazione all’esercizio che infatti arriva nel Dicembre del 1962. La nostra storia potrebbe iniziare da qui. Da un marchio vuoto che nel Marzo del 1963 inaugura la sua prima sede in Via Indipendenza entrando in un mercato ostile e, per certi versi misterioso, accompagnato da partners non ancora del tutto convinti e solo relativamente disponibili. (continua…)



Per saperne di più: cooperazione in Emilia- Romagna segnalo l' articolo "La terra degli uomini con la capparella" di Valerio Evangelisti pubblicato su Carmilla.org
http://www.carmillaonline.com/archives/2007/03/002179.html#002179

Seconda puntata: La partenza e la prima crisi

Unipol nasce in un mondo che cambia velocemente con la destalinizzazione di Kruscev e il Concilio Vaticano II° che cambierà radicalmente l’istituzione ecclesiastica. Un clima di profondo rinnovamento ideologico, quindi, dove la neonata si butta con entusiasmo affrontando innumerevoli difficoltà.
“In quel periodo era dura rappresentare l' Unipol, nessuno la conosceva, c'era diffidenza e molti facevano confusione con Interpol” racconta un agente della prima ora in “Vent’anni di Unipol”, (un libro a cura del Gruppo Agenti edito in occasione del ventennale della Compagnia), e ancora si susseguono le testimonianze di chi lavora in locali “presi in prestito” dalle cooperative, spesso inventandosi mestiere e ruolo di agente o produttore. E il mondo della cooperazione sta ancora a guardare cosa combinerà “l’assicurazione diversa”. Certo, su sollecito dei vertici mette a disposizione uomini e strutture e, fatto più importante, è attraverso i suoi canali con l’estero che Unipol trova i primi riassicuratori (tedeschi e russi) fondamentali per l’attività, ma sul territorio, laddove c’è da fare i contratti, c’è ancora un po’ di diffidenza.



Diffidenza che è peraltro naturale considerando come i quadri cooperativi si sentano responsabili delle strutture che dirigono e facciano questo ragionamento: Sì va bene, ma se poi l’idea Unipol non và a buon fine chi dà poi i soldi ai miei associati ? Nonostante un aiuto solo parziale dal suo mercato di riferimento, una scarsa e (a ragione) diffidente cultura italiana circa l’istituzione assicurativa e la concorrenza di compagnie perlopiù già attive e prospere dal secolo precedente, i primi due anni di Unipol sono quasi esaltanti sotto il profilo dei numeri. Gli incrementi dei premi lordi superano di gran lunga le aspettative e su circa 135 compagnie presenti nel mercato, già dopo un anno e mezzo Unipol si classifica a metà con una penetrazione sempre più capillare nel territorio italiano. Tutto bene quindi. Ma come ogni storia che si rispetti
vi è il colpo di scena.

Dal 1963 circa, infatti, il celeberrimo boom economico inizia a spegnersi e il Paese entra in una ciclica recessione. Ma c’è di più: i governi dell’epoca sono impegnati a rendere obbligatoria la RC auto, provvedimento che si può definire solamente civile, ma anche che attiva un bel tot di affaristi, investitori e pescecani vari, attratti dalla massa di denaro che certamente si riverserà nelle tasche delle compagnie. Infatti, già dal 1965, si nota una inversione di tendenza nelle concessioni delle autorizzazioni. Acume affaristico, lobby e clientelismo fanno sì che in cinque anni vengano date autorizzazioni ad operare nel settore a più di sessanta compagnie, alcune delle quali, inutile dirlo, spariranno con il bottino molto presto. Ma non è nemmeno questo il grosso problema quanto il fatto che Unipol ha la maggior parte del suo portafoglio nella Rc auto e quindi, quando le compagnie più grosse decidono che possono permettersi di vendere dette polizze sottocosto pur di accaparrarsi fette di mercato, si trova in difficoltà. Dato che i problemi non vengono mai da soli, la compagnia deve affrontare anche altri due problemi in concomitanza. Uno è rappresentato dagli oneri di gestione che risultano tra i più alti nel settore (sembra impossibile oggi eh?…) l’altro è invece la questione del capitale sociale decisamente inadeguato alle dimensioni che la Compagnia ha raggiunto e alle sue ambizioni. Tre problemi che presi in prospettiva, spaccano il gruppo dirigente tra chi matura l’idea di vendere e chi, invece, prova a cercare una soluzione alternativa. Se avete letto fin qui stando comodamente seduti alla vostra scrivania, immaginerete come è finita. Ma le dinamiche e i mezzi per uscire dalla crisi ve la raccontiamo alla prossima puntata.

Terza puntata: salto di qualità

La piccola Compagnia della Lega si trova quindi spaccata in due al suo interno: da un lato c’è chi preferirebbe dare per conclusa una esperienza positiva cedendo a terzi un “gioiellino” e forse attendendo tempi migliori per riprovarci. Per contro c’è chi pensa che questa esperienza debba continuare e che i problemi da affrontare, per quanto grossi, siano risolvibili.
Tra questi ultimi c’è un signore che ogni tanto sentiamo citare, non fosse altro quando andiamo a sentire le novità sindacali nella sala che porta il suo nome: Cinzio Zambelli . Questo personaggio non esce dal cilindro del prestigiatore, ma da una pluriennale esperienza nel settore economico della Lega dove, già da anni è un attivo membro della commissione per la sua riorganizzazione, nonché convinto sostenitore che possa esistere un punto di equilibrio tra affari e cooperazione. Zambelli, dentro ad Unipol già dal primo consiglio di amministrazione, si muove agevolmente nell’ambiente di una Lega che persegue il suo rinnovamento sempre più distaccato da un pregiudizio ideologico che appare sempre più appartenere a tempi lontani.
A livello europeo, ad esempio, il sindacato tedesco D.G.B. è “dentro” una compagnia di assicurazioni. Infatti la Volksfuersorge ha, all’epoca, circa 300 miliardi di lire di raccolta premi ed è prima in Germania per numero dei contratti. E se non basta a dare le idee delle dimensioni, diciamo che è anche primo gruppo assicurativo legato al movimento cooperativo in Europa e terzo nel mondo. Una sorta di Unipol moltiplicata n° volte quindi, che guarda con interesse alla esperienza italiana. Ed è dai contatti con il suo presidente, Walter Rittner, e Zambelli che questo “guardare” diventa analisi positiva delle potenzialità della piccola compagnia bolognese e che, infine si concretizza in una alleanza concreta. I tedeschi prendono quindi il 33% di Unipol portando capitale, che è ossigeno puro per il capitale sociale, e la tecnicità maturata in decenni di esperienza nel settore.
Un'altra alleanza si concretizzerà da lì a breve: quella con i sindacati italiani. E’ un passo importante non tanto per le quote che i sindacati rappresentano che, di fatto non sono grandissima cosa, ma perché questa alleanza permette di allargare il bacino di utenza, e legittima Unipol verso gli iscritti superando una diffidenza tra sindacato e compagnia che ha origini lontane e implicite nei rispettivi ruoli. Anche qui gioca un ruolo fondamentale la Storia, quella con la S maiuscola che porta negli anni ’70 al superamento delle divisioni ideologiche tra i tre sindacati italiani e le salda durante le lotte operaie dell’autunno caldo (quelle lotte che oggi noi chiamiamo orario equo, diritto all’ infortunio, possibilità di malattia pagata, 150 ore di studio…). Tanto che così come è naturale il mantra “Albertosi, Burnich, Facchetti…” con cui si inizia a declamare la formazione azzurra , altrettanto lo è il “Lama, Storti e Vanni” riferito ai tre leader di CGIL, CISL e UIL.


Quanto questa entrata influisce poi sulla conflittualità tra azienda e lavoratori (conflittualità ben presente e probabilmente ben più tosta dei tempi che conosciamo) non è dato da sapere e preferiamo lasciare a chi è riuscito a leggerci fin qui, ogni possibile elucubrazione in merito, quello che è certo è che la doppia alleanza stretta, porta ad attrezzare la compagnia con un capitale sociale finalmente adeguato e degli oneri di gestione che si possono diluire in un mercato più ampio. A queste operazioni non bisogna dimenticare che viene aggiunto un ulteriore tassello che è rappresentato da una forte decurtazione delle provvigioni per le agenzie. Operazione che pare abbia lasciato meno “cadaveri” sul campo di quello che si poteva immaginare.
Alla Assemblea straordinaria del Luglio del 1971 (foto a sinistra) tenutasi al Teatro la Ribalta vengono presentati i cambiamenti della Compagnia che coinvolgono anche la modifica dello Statuto e un radicale cambiamento di tutto il gruppo dirigente.
Se qualcuno ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, capirà allora perché oggi esiste una Sala Zambelli (e se i locali aziendali vengono intitolati secondo il merito, non perdo le speranze di un futuro Bagno Kuerkulis nda) .
C’è da dire però che la storiografia ufficiale di Unipol è stata fin troppo agiografica verso questo importante personaggio. Certamente il suo ruolo è stato primario in questo (e non solo) momento cruciale per la Compagnia, non fosse altro per la capacità di vederne le prospettive future, ma spesso il suo ritratto sembra una caricatura di un eroe che in quattro mosse risolve la situazione. Secondo noi Zambelli ebbe la tenacia di proseguire fino in fondo un progetto in cui credeva, cavalcando le onde della storia e del cambiamento. Un po’ come un altro personaggio già qui incontrato e verso cui la storia ufficiale di Unipol è stata indubbiamente ingenerosa. Parliamo di Sergio Getici ( dimissionario poco prima del nuovo corso) che fu senz’altro uno dei “padri fondatori” di Unipol. Per evitare facili contrapposizioni tra eroi buoni o meno e senza scadere in inopportune esaltazioni, volendo approfondire un po’ di più questi due interessanti personaggi, ci possiamo affidare alle imparziali parole di una di quelle dirigenti della “vecchia guardia”.
Quelle, per intenderci, ancora capace di trovare un minuto tra i suoi molteplici impegni per parlare con un dipendente:la Dottoressa Maria Betazzoni, all’epoca responsabile dell’ufficio studi e statistiche che, ad un dipendente che stava lavorando alla tesi di laurea con argomento i primi anni di Unipol, rilasciò la testimonianza qui riportata integralmente: “ Premetto che sono estremamente grata ad entrambi perché mi hanno dato una possibilità unica di crescita sia umana che professionale, facendomi partecipare, in diretta, all’approfondimento di molti aspetti della vita dell’impresa. Sia Getici (foto a destra) che Zambelli erano persone che chiedevano molto.
I problemi andavano affrontati in tutti i loro aspetti e il presentare un lavoro a loro voleva dire prepararsi a fondo sulla tematica in discussione. Al di là dell’ impegno richiesto, era un metodo ben vissuto da noi giovani perché ci permetteva di esprimere le nostre potenzialità e di essere valorizzati. Inoltre entrambi, erano i primi ad applicare questa linea, senza risparmiarsi, diventando così un modello da seguire. Getici aveva un profilo più di carattere tecnico, con intuizioni che precorrevano i tempi, che coinvolgeva i suoi collaboratori con tutto il suo patrimonio umano e di conoscenza.
Zambelli aveva un profilo più di carattere politico, ma ben consapevole però di dovere acquisire una indispensabile base tecnica; non si faceva scrupolo quindi di mettersi in gioco, con umiltà e tenacia, anche su questo piano, per appropriarsi rapidamente delle conoscenze specifiche necessarie per dirigere l’impresa .” E ora, cari lettori, se volete guardare i Vostri capi attuali per paragonarli a questi personaggi… fate pure. Intanto rimanete in attesa della prossima puntata di questa lunga storia di cui anche voi oggi siete attori.

Quarta Puntata: la crescita

"…i problemi interni della Compagnia non si può certo dire che con il 1972 fossero risolti e accantonati. [...] voglio dire che dopo l'anno della svolta, almeno per altri quattro anni dal '72 al '76 la situazione era migliorata ma non era completamente tranquilla. Potevamo sperare nel decollo dell' Unipol, ma nei fatti tutto ciò poteva anche non succedere. Fu solo nel '76 che cominciammo a tirare un po' il fiato: la nave aveva dimostrato di tenere il mare.” Così rievoca quel periodo Enea Mazzoli, Presidente di Unipol dal 1979 al 1996 (un signore che ancora adesso, ogni tanto, fa la fila e viene a mangiare in mensa come quando era Presidente) rievocando la storia di Unipol. In effetti, chi vuole prendersi la briga può andare a leggersi i bilanci di quel periodo (sapendo che comunque detti bilanci fino al 1978 erano soggetti ad una modulistica e ad una metodologia normata da un decreto del dicembre 1928, che lasciava ampissimi spazi alla interpretazione delle singole voci) trovando numeri al limite della esaltazione in fatto di incrementi di premi, bilanciamenti d portafoglio, incrementi premi netti (costantemente più del 20% da ’70 al ’75), penetrazione territoriale, ecc. Risultati tanto più buoni in quanto ottenuti in una Italia il cui boom è solo un ricordo.
Nel 1973 l’inflazione tocca, per la prima volta nella storia del Paese le due cifre: più 10,36% contro il 2,82% di soli quattro anni prima. L’industria italiana mal rinuncia ai grassi profitti degli anni precedenti e imputa la crisi alle giuste lotte operaie a cavallo dei decenni, che hanno fatto innalzare il costo del lavoro. A tutto ciò si aggiunge la grande crisi petrolifera su cui i Tg dell’epoca rimandano servizi su domeniche senza automobili ma anche, di aumento vertiginoso delle materie prime. Forse, in quelle immagini in bianco e nero delle città a piedi che ancora oggi si vedono in qualche documentario, c’era, magari di sfuggita, anche qualcuno degli oltre 400 dipendenti che Unipol annoverava a metà degli anni ’70. Chi erano costoro ?
Se qualcuno si prendesse la briga di sfogliare i vecchi elenchi telefonici interni, troverebbe cognomi che ricordano presidenti di cooperative, assessori, politici locali. Erano, principalmente i loro figli. Forse che anche Unipol non era immune al vizio italico della raccomandazione (unica maniera per trovare un lavoro in quegli anni… e forse anche adesso) ? in parte sì, ma non solo. In primo luogo, ancora a metà degli anni ’70 un diploma e, soprattutto una laurea contavano, e tanto, per il futuro, e chi l’aveva non sprecava certo anni di studio e di soldi (tanti) per relegarsi a fare l’impiegato in una Compagnia di assicurazione. In secondo luogo parliamo di una Italia ancora caratterizzata ideologicamente, Unipol era ancora la “Compagnia Rossa” (e come avrebbe detto mio nonno: Rosso non come adesso ma rosso come una volta) e chi la pensava diversamente mal si accostava a questa realtà. Per dirla con le parole di un vecchio collega: “ se proprio dovevo lavorare, meglio l’impiegato che in fabbrica. E se proprio dovevo fare l’impiegato meglio farlo in un posto per cui mio padre aveva lottato

e combattuto.” La maggioranza dei dipendenti sono quindi giovani, chi più e chi meno già politicizzato, e chi ha studiato è forse un po’ contaminato dal vento sessantottino. Una miscela conflittuale (scioperi e vertenze sono piuttosto frequenti) ma che porta anche un patrimonio fondamentale per lo sviluppo della Compagnia: un senso di appartenenza solidissimo che mette da parte le conflittualità per fare quadrato nel momento del bisogno e che fa crescere Unipol dandole sempre di più l’etichetta di “diversa”.
Si diffonde l’uso del “tu” verso i dirigenti e i quadri e via via a salire verso il Consiglio d Amministrazione. Questo è molto mutato rispetto ai primi anni. Intanto è stata introdotta la figura degli Amministratori delegati. Sono due e si chiamano Vitaliano Neri e il già citato Zambelli. Poi il personaggio del Direttore Generale viene sostituito da un Comitato di Direzione di cui fanno parte, oltre al Presidente e agli Amministratori delegati, due Direttori centrali: Carli e Cilia. Il resto dei consiglieri (aumentato a 23 rispetto ai 15 iniziali) comprende i tedeschi nuovi soci, esponenti di vertice di CGIL e UIL (CiSL sottoscriverà qualche anno più tardi) nonché una folta rappresentanza di esponenti di grosse cooperative e di organismi della Lega e delle associazioni socie.
Scorrendo i nomi, colpisce la suddivisione delle “poltrone” tra le componenti politiche principali della Lega, ovvero: Pci, Psi e Pri. Non è una sorta di lottizzazione come potrebbe apparire in un primo momento, bensì un modello organizzativo che nelle maggiori cooperative e associazioni si dimostra vincente nel tempo. Ogni componente è rappresentata e ogni componente controlla l’altra, il tutto per “il bene supremo dell’Azienda”. Con buona pace della sinistra che, questo modello non riesce ad applicarlo alla politica italiana. Quindi Unipol e cooperative si saldano ancora di più, crescendo insieme e spingendosi a vicenda. Come l’ istituto cooperativo può spingere Unipol, è abbastanza chiaro: facendogli fare dei premi e aiutando il suo sviluppo con la forza territoriale delle sue strutture, ma Unipol in che senso spinge la Cooperazione ?
Non dimentichiamo che nel suo Statuto originario, tra gli scopi di Unipol c’è il realizzare “una politica di sani investimenti patrimoniali indirizzati particolarmente al sostegno del Movimento Cooperativo" . Tale realizzazione funziona, in pratica, in questa maniera: c’è una cooperativa in crisi e interviene Unipol a fare una operazione immobiliare. Alla cooperativa la cosa và bene perché ha i soldi che servono e subito; all’Unipol la cosa và altrettanto bene perché compra ad un prezzo spesso appetibile. Certo, questo giro di immobili e di soldi (a cui la Compagnia destinerà, nella prima metà degli anni ’70 mediamente il 38% dei premi tassabili raccolti) a volte cela dei “pacchi” bestiali, ma a volte si realizzano anche dei veri e propri affari che suscitano parecchie invidie.
In ogni caso se qualcuno che ci ha seguito fin qua si dovesse chiedere il perché noi dipendenti abbiamo sconti e agevolazioni se andiamo al Villaggio Città del Mare di Terrasini, sappia che tale villaggio è sorto su terreni che Unipol comprò dalla Camst in uno dei suoi momenti di difficoltà. Un altro esempio è un terreno, rilevato da una coop con problemi di liquidità, piazzato là fuori Porta Mascarella, dopo la Tangenziale.
Un terreno che verrà scambiato con il Comune di Bologna che là ci farà sorgere il Parco Nord. In cambio viene dato un terreno più vicino alla città, in una zona con ancora scampoli di campagna e un polo fieristico non ancora così ingombrante. Una zona tagliata in due da una strada che , curioso scherzo del destino, ha un nome che sembra fatto per rinfocolare il mito della Compagnia rossa. La strada è Via Stalingrado dove, nel 1981 Unipol si trasferisce chiudendo un capitolo della sua storia e aprendone altri che, spero, andremo prossimamente a raccontarvi…

Quinta puntata: come eravamo noi di Via Stalingrado

Vent’anni fa, via Stalingrado non appare oggettivamente tanto diversa da oggi. Al di là del ponte della Mascarella, all’incrocio con Via del Lavoro, ci sono le case popolari. Una lunga sfilza di fabbricati popolari ed industriali fronteggiano quelli civili e poi… siamo già in una periferia a soli pochi kilometri dal centro storico. A est della strada, le recenti torri del meraviglioso visionario Kenzo Tange sorvegliano i capannoni di una Fiera che sta prendendo coscienza delle sue potenzialità inaugurando nuovi spazi espositivi e iniziando a pensare in grande. Intorno fabbriche e campagne superstiti tra cui si estende piatto, lungo e nero il fabbricato dell’ Unipol.
Un po’ cupo e basso con una entrata sobria vigilata da un monumento (ma che qualcuno credesse che fosse un avanzo dimenticato da qualche operaio non è solo una battuta .) a forma di tubo, prendeva da un lato una via Calzoni non ancora regalata alla Fiera nella parte che si univa a via Michelino. Dall’altra la vista era sull’ hotel (e la sua mitica piscina estiva) e su via della Costituzione con un panorama non ancora ostruito dal palazzo di Unipol Banca oggi nero ma dipinto di un bel rosso squillante quando era proprietà Telecom. Dalle finestre che ricordano feritoie di un castello, la vista non era poi tanto diversa da oggi. Solo molte meno macchine e battone scese di categoria dall’anzianità e che, come oggi, venivano sostituite al tramonto dai travestiti. La continuità che conosciamo è il centro servizi perfetto: business di affari economici di giorno e business di affari di altra natura alla sera. Praticamente il paradiso del terziario avanzato. In questo contesto il pellegrino che voleva andare all’ Unipol in quegli anni , avrebbe avuto poche difficoltà a parcheggiare a qualsiasi orario. Saliti i gradini avrebbe potuto fermarsi a prendere un caffè a bar Camst allocato dove ora c’è la Banca (e c’era una Banca a cui periodicamente cambiavano insegna negli esatti locali dove ora c’è il bar) o entrare direttamente dall’ingresso principale che è poi quello che conosciamo tutti ma un po’ meno pomposo. All’interno le differenze rispetto ad oggi sarebbero state minime.
Certamente meno plastici di progetti urbani, luci e video di sorveglianza . Certamente meno guardie giurate dietro al banco dove troneggiava un signore alto, grosso, pelato e con i baffi a manubrio e le mani da metalmeccanico: Sergio il portiere di cui , in seguito, un Walter diametralmente opposto nel fisico e nei modi riuscì nell’ impresa di diventare altrettanto mitico.
Non c’erano porte blindate, pass o quant’altro perché, allora, bastava l’occhiata della portineria per introdurti in quei corridoi bianchi come oggi.
Sembrava un dedalo già vent’anni fa anche se la superficie era meno di un terzo di quella odierna.
Infatti Unipol non era ancora numerata, esisteva solo una Unipol 1 e un terrazzone che divideva da Coop Emilia Veneta e che in seguito, circa nel 1986, fù coperto dal tunnel dove d’estate alcune colleghe dalla pressione bassa, regolarmente collassavano.
Unipol 1 non era poi tanto differente da ora se si eccettuano la moquette, alcuni corridoi un po’ più larghi e la scomparsa dei topi che si celavano negli armadi degli uffici della riassicurazione, per vent’anni i primi ad essere attraversati da un visitatore (e quando li hanno spostati abbiamo intuito i primordi del cambiamento


che ci investe…). Topi debellati dal gatto Unipol, esemplare felino noto per la sua costante presenza di fronte alla porta di servizio della mensa o alle finestre del pian terreno nonché fonte di svago per molti colleghi che mollavano il lavoro per vederne le spettacolari lotte nei cortili nei periodici tempi del calore.
Negli incroci strategici dei corridoi mancavano le macchinette. Se qualcuno voleva prendere qualcosa in teoria timbrava il cartellino (non ancora elettronico) e andava al bar o aspettava che passasse il carrello che faceva il suo giro due volte al giorno. Alla mattina con le paste e al pomeriggio con i dolcetti tipo kit kat e accompagnato da cuccume termiche di bevande calde. Ancora come oggi “C’è il bar” (che dalla fine degli anni ’80 divenne il marchio di fabbrica del mitico Franco) e diverso solo al venerdì che cambiava in “C’è il bar con i panini”, significava il break dal lavoro.
Naturalmente non era l’unico break della giornata. In uffici dove non esistevano computer ma solo terminali, la comunicazione tra settori era affidata alla voce del telefono e alle gambe. Non si facevano proprio dei Kilometri, ma tanti metri sì (moltiplicati poi in seguito dalla nascita di Unipol 2). E a fare scale e corridoi ci si stancava e così quando si arrivava nell’ufficio dove bisognava andare si coglieva l’occasione per fare due chiacchiere. Complice un ritmo di lavoro diverso si parlava delle cose di tutti i giorni e del lavoro. L’infornata dei nuovi assunti degli anni ’80 aveva portato molti laureati in maggior parte ingegneri, promettendo “sentieri di carriera” rapidi e percorribili e questi laureati avevano sempre qualche cosa da dire, qualche idea da proporre, qualche futuro da abitare. Cose da dire che per molti di loro si sono trasformate in quotidianità, idea da proporre che si sono perse nei meandri della burocrazia d’impresa, futuro che si è rivelato quello di un impiegato come tanti. Ma non è questo il contesto per parlare dei perché, quelli che allora non venivano ancora catalogati come “talenti” ma che di fatto lo erano, furono indotti a percorrere sentieri di carriera che finivano in vicoli ciechi. In questa storia, non volendo avanzare ipotesi ed analisi , cerchiamo solo di lasciare l’ immagine di questi tecnici che portavano la scienza a contatto con l’esperienza dei più anziani. La portavano in uffici, spesso troppo fumosi con pareti adornate dai simboli di una iconografia “compagna” che comprendeva il Che e il Quarto Stato, dignitosamente incorniciati e evidenziati dalle pareti bianche.
La regola era che tutti si davano del tu e che i sandali e i jeans si mischiavano alle giacche e alle cravatte. Ad un certo orario si andava tutti in mensa, strutturata come un self service e quindi con file che partivano dal pianerottolo. Con pazienza prendevi il vassoio, sceglievi e consegnavi alla cassa un biglietto bianco (da ritirare in portineria) e dei soldi. Dopodiché ci si sedeva in lunghi tavoloni.
A questi tavoloni, c’era seduto un signore alto dal colorito olivastro e dai cappelli ricci che gli scendevano lungo le spalle. Per ironia della sorte si chiamava Hector Pinochet e portava il cognome del bastardo dittatore che lo aveva cacciato via dalla sua terra . Concedetemi il personalismo se alla sua memoria e alla lezione di utopia e di ideale che ha, forse inconsapevolmente, incarnato, mi sento di dedicare queste righe scritte in tempi così avari di salvaguardia della memoria. E forse era proprio il suo ideale che lo faceva sedere di fronte ad un signore che, ancora oggi capita di incontrare al Venerdì in mensa. Questo signore è Enea Mazzoli, il Presidente che l’ Unipol ebbe dal 1979 fin quasi alle soglie del nuovo millennio. Il Presidente che nel 1986 rappresentava una Compagnia con 1.015 dipendenti , 527 agenzie (il 60% delle quali collegate al Ced della Compagnia anche grazie al progetto di un neo- dirigente bocconiano il cui cognome era Consorte) e con un utile netto in eccedenza a quanto previsto dalle vigenti leggi. Un Presidente che faceva la fila in mensa e che si faceva la sua passeggiata intorno all’isolato salutando tutti i dipendenti che incontrava (secondo me salutava chiunque , anche il benzinaio perché se ci conosceva tutti era veramente un fenomeno nda.) e che rappresentava una Compagnia alle soglie di un nuovo, grande, cambiamento. Che, spero, verrò a raccontarvi nella prossima puntata.

Sesta puntata: l' entrata in Borsa

E’ il Luglio del 1986 ,un anno strano, forse un anno che è una pietra miliare ma che ancora non si vive come tale. Sono passati solo tre mesi da quando, nella Unione Sovietica delle aperture di Gorbaciov, è scoppiato un reattore nucleare. L’ Ucraina e Chernobyl sono lontane anni luce e difficili da trovare su qualsiasi atlante, eppure qui da noi, ai primi di Maggio viene vietata la vendita di latte e ortaggi “a foglia larga”.
Improvvisamente scopriamo che il mondo è piccolo. Piccolo ma anche veloce nel metabolizzare e nel dimenticare. Nell’ Aprile 86 le scuole materne vietavano ai bambini di giocare con la sabbia per paura delle contaminazioni di cesio , nel Luglio del medesimo anno siamo tutti al mare. Con i piedi nella sabbia prendiamo aperitivi dimenticando le 23 morti nel mese di Marzo causa vino al metanolo, sorseggiamo caffè come lo sorseggiò, qualche mese prima, Michele Sindona nel carcere di Voghera. Siamo dimentichi e siamo felici. Da un paio di anni ci dicono che tutto và bene e che l’economia tira che è un piacere tanto che si parla di un secondo miracolo economico. L'indice Comit che nel dicembre del 1985 è a 404,04 passa a febbraio a 563,94 e il mese successivo schizza a 712; gli andamenti dei listini borsistici diventano argomento di conversazione comune tra la gente. Nei bar scalano le top ten insidiando gli argomenti storici del calcio e delle donne e Michele Serra, allora giovane corsivista dell' Unità, scrive di pensionati anziani che non passano più il tempo a guardare i lavori in corso bensì gli schermi delle banche con gli andamenti dei titoli.
Il nemico Russo ci ha tirato il gancio del reattore, ma Gorbaciov apre al mondo e fa capire che i comunisti non sono più quelli di una volta. Ce ne siamo accorti anche in Unipol. Infatti, la relazione introduttiva del Consiglio di Amministrazione anno 1986, apre con queste testuali parole: “Signori Soci, il 1986, 24° esercizio dall'inizio della attività sociale, è stato contrassegnato da un evento particolarmente rilevante: l'ammissione delle azioni privilegiate della Società alla quotazione ufficiale presso le Borse Valori di Milano, Roma e Bologna, avvenuta il 28 luglio 1986."
L’ Unipol è entrata in Borsa , e detta così sembra di non aver detto niente se non si pensa che sono passati solo alcuni decenni da quando, nel mondo cooperativo, il denaro era ancora considerato “sterco del diavolo”. Pregiudizio che il socio tedesco aveva superato già da qualche anno, e superato in grande scioltezza. Forse troppo, visto che a metà degli anni ’80, per coprire un grosso buco fù costretto a vendere il gioiello di famiglia: la Volkfuersorge che tanta importanza aveva avuto nel tenere in vita e lanciare Unipol. L’acquirente è collegato a Fondiaria la quale, in virtù di un patto di sindacato con Unipol le rivende alla compagnia bolognese la quale


colloca 4.444.825. azioni ai soci e ne mette sul mercato 10.000.000 quotate da un Consorzio di banche a 6.800 £.
In un lunedì di metà maggio, dopo tre ore dall'apertura, le richieste ricevute dal Consorzio sono 143.585 pari a 177.212.900 £.
Nel borsino del terzo mercato le azioni Unipol vanno a circa 30.000 £ e il primo giorno di presenza alle Borse di Milano, Bologna e Roma, da £ 6.800 vanno immediatamente a £ 16.000. Noi dipendenti che abbiamo avuto la possibilità di comperarne a poco più di 7.000 £, andiamo al mare e, con i piedi a mollo apriamo il giornale saltando le pagine di sport e di cronaca per approdare alla pagina della Borsa, dove, invariabilmente, scopriamo di essere più ricchi senza aver fatto praticamente un cazzo. Con la bazza delle azioni diventiamo tutti dei gran esperti di mercati finanziari. C’è chi si accontenta, vende e compra il divano nuovo o la seconda casa o la macchina nuova. C’è chi non si accontenta e continua a giocare imperterrito fino al prossimo crack. Ma questo è ancora al di là da venire. Quell’oggi è pieno di titoli sui giornali (anche esteri) non per via di intercettazioni telefoniche ma per l’ingresso nel salotto buono della finanza rossa, con toni non scandalistici ma solo un po’ stupiti e universalmente ammirati e compiaciuti .
E’ il simbolo del mondo che cambia nell’epoca dell’ edonismo reaganiano e dei paninari, è sintetizzato in una foto che ritrae due persone: da un lato il mitico Cinzio Zambelli, e la sua vita dedicata alla cooperazione e alla ricerca della sua solidità economica, dall’altro Raoul Gardini, altrettanto mitico self made man romagnolo che in quegli anni è in procinto di rilevare la Montedison (cosa che gli farà dire: in Italia la chimica sono io). I due si stringono la mano . E sorridono. Zambelli un po’ schivo ma compiaciuto , Gardini con i denti allo sbaraglio, un po’ guascone. Qualcuno potrebbe vedere in questa fotografia la fine di una innocenza.

Qualche anno dopo quella istantanea, Gardini si tirò un colpo di pistola alla tempia uscendo così in maniera tragica e romantica dall’inchiesta Mani pulite . Ai suoi funerali partecipò tantissima gente di ogni ideologia,di ogni mestiere e di ogni religione, legata al personaggio, alle sue imprese nelle regate sportive con “il Moro”, o forse solo umanamente vicina alla vertiginosa ascesa e alla tragica caduta di un self made man romagnolo.
E Unipol ? finì anche per Unipol l’innocenza ? Non mettetevi in ansia e sperate … in una prossima puntata.